di Annamaria Barbato Ricci, L’indro
È un uomo pieno di sorprese, l’attore, regista, impresario teatrale Antonello Avallone, spericolato fedele della religione del Teatro, malgrado il rischio immanente in un’arte non sempre benigna. Romano (“e romanista”, aggiunge puntiglioso), ha due filoni nel repertorio che lo contraddistinguono: lo scanzonato Woody Allen – l’autoironia allo stato puro – e i grandi della commedia napoletana. Con digressioni varie, sempre, però, col sorriso sulle labbra.
inizia a dirmi. “Per 22 anni mica mi interessavo di teatro… Sono laureato e facevo un’altra attività. Indovina quale?”, dice, sapendo che mi stupirò… Le tento tutte, dall’avvocato all’architetto, all’ingegnere. Non oso il veterinario. Non ci colgo comunque, forse perché… a quella materia, a cui sono allergica, manco ci avrei pensato. “Sono laureato in matematica, seguendo le orme paterne, e l’ho pure insegnata nelle scuole; ho anche suonato per anni la batteria in un gruppo rock che ha accompagnato la breve carriera di un paio di cantanti da ‘un Sanremo e via’, Rosalba Archilletti e Valeria Mongardini…” Che nessuno se le ricordi, men che meno del complesso che faceva loro da accompagnamento, i Grog (dal personaggio del diario a fumetti BC), è significativo. Lo guardo sbalordita… “ho avuto il mio iniziale coup de theatre…” E quest’illuminazione, come avvenne? “Insegnavo a Lavinio nelle scuole medie. I ragazzini erano allergici anche loro, come te, alla matematica e alle scienze. Di fronte a una scolaresca refrattaria, che apprezzava il mio metodo d’insegnamento, (‘Con Avallone prendi due, ma te fai un sacco di risate’ era lo slogan ricorrente), ma non si spostava di un millimetro dall’ignoranza, escogitai una piece su misura, messa in scena dai ragazzini stessi: Natale sulla stella Lontanuch; i colleghi, entusiasti, vollero replicare, calcando anche loro il palcoscenico, con Non ti pago di Eduardo De Filippo. Fummo presi dall’euforia del teatro e qualche spettatore entusiasta insistette sulle mie doti naturali di padronanza del palcoscenico. Avevo assorbito la presenza scenica, senza accorgermene, vedendo film e spettacoli teatrali – e un po’ c’era lo zampino anche di quella matematica che ti dà la sensibilità all’equilibrio nel proporti agli altri. Lo dico sinceramente, all’epoca era un mestiere che non avrei mai immaginato di fare”. E come passasti al teatro militante?
La svolta è stata rappresentata da una scrittura in una compagnia di professionisti un po’ improbabile, col guru regista che, dentro di me, si è stagliato come l’icona negativa di come si fa il teatro. Mi ha insegnato un sacco di roba, nel senso che capii che bisognava fare l’esatto contrario di quello che faceva lui. Quella è scuola! Dopo una tale esperienza maieutica, mi sono messo in proprio, formando una compagnia mia. Con quale repertorio? Ovviamente napoletano. Ovviamente perché avevo ascendenze partenopee, come dimostra il mio cognome, ma la lingua l’ho dovuta studiare per vent’anni, proprio come una lingua straniera. Il napoletano, infatti, è una vera e propria lingua: la mia laurea honoris causa in materia l’ho ottenuta quando, nel 2005, al Teatro Instabile di Napoli, in via dei Tribunali – ovvero nel cuore del dialetto più stretto –, ho rappresentato Uscita d’emergenza di Manlio Santanelli, e a nessuno è venuto in mente che fossi uno ‘straniero’.
Fino ad allora non avevo osato affrontare i leoni nella loro tana”. Ma Woody Allen cos’ha in comune con Scarpetta, De Filippo, Santanelli? “Niente. Come approccio teatrale, Allen rappresenta qualcosa di totalmente diverso rispetto al genere di repertorio che avevo fatto fino ad allora. La mia passione per i suoi film risale ai miei vent’anni, quando sfornò opere fondamentali come Provaci ancora, Sam, Il dittatore dello Stato libero di Bananas, Il dormiglione, Prendi i soldi e scappa, Amore e guerra. Venivano proiettati nei cinema più scalcinati, come il Boito, che attualmente si è trasformato nel Teatro Greco. Avevo metabolizzato battute e situazioni, vedendo i film più e più volte, e trasferendoli nel quotidiano; così, quando, nel 1991, mi capitò di dover interpretare il suo ruolo in uno spettacolo teatrale, mi venne così naturale che io ‘divenni’ Allen. Mi incoronò come l’Allen italiano il giornalista Nico Garrone di Repubblica, il padre di Matteo; dopo di lui, arrivarono tanti altri come mosche e tutti concordarono sulla mia capacità di trasfigurarmi in Allen”. Ma l’hai mai incontrato? Forse quando ha girato qui a Roma To Rome with love? “Non in quell’occasione. Però, quando presentò nel ’98 Celebrity nella Capitale, partecipai alla conferenza stampa, giusto per ‘controllare’ se fosse più alto di me. Appena di un soffio. Ci siam trovati gomito a gomito nel salone d’albergo dov’ebbe luogo l’incontro e potetti constatare dal vivo. Mi sento molto gratificato da questo. E mi ha dato ancora più determinazione a mettere in scena i suoi geniali lavori. Fino al 30 novembre, qui a Roma, al Teatro dell’Angelo sarò in scena con la sua Dea dell’Amore’, interpretata da Giulia Di Quilio, una vera scoperta, nota finora più ai cultori del burlesque, ma rivelatasi un’ottima ‘Dea dell’Amore’. Giulia è riuscita a cogliere l’antinomia di una ragazza cresciuta in un ambiente squallido, corrotto, dove, per andare avanti, c’erano poche alternative alla prostituzione, e il suo nucleo interiore candido, amorevole, che si rivela nell’incontro col giornalista Lenny (Woody Allen con tutto il fulgore della sua imbranataggine). Dunque, non Richard Gere di Pretty Woman. E l’alchimia fra gli opposti funziona”.
Mi nomini il Teatro dell’Angelo, che è la tua costola… come Adamo che crea Eva. La tua storia professionale è strettamente legata al Teatro dell’Angelo…
Era abusivo dal ’70 e alla fine, teatro o non teatro, la legge ha fatto il suo corso. Mi trovai, teatralmente parlando, come Totò, altra mia grande passione, al pari di Woody Allen, ‘senza casa’ e riparai fra il 2004 e il 2005 alla Sala Umberto. Successivamente, trovai l’occasione, qui in Prati, a via Simone di Saint Bon, dell’allora un po’ scarrupato, per abbandono, Teatro dell’Angelo. Inizialmente, quando Bedi Moratti volle investire in un Teatro a Roma, scegliendo il nome in omaggio a suo padre, il petroliere Angelo Moratti, presidente dell’Inter negli anni ’60, senza tentazioni filippine, la struttura era bellissima e qui hanno recitato, in quegli anni, Carmelo Bene, Vittorio Gassman e altri famosi artisti del teatro italiano.
Poi, divenne teatro di posa della Rai e di Canale 5; e, infine, è stato venduto ad un’altra società, di cui sono locatario”. Quando l’hai visto per la prima volta, cosa pensasti? “In realtà, ero condizionato da una lunga trattativa, di ben cinque mesi, con la Cassa Nazionale dei Ragionieri, proprietaria del famoso Teatro delle Arti, in via Sicilia…
A dirla tutta, ci avevo lasciato il cuore e… se fosse possibile, ora che sono cambiate le cose alla Cassa dei Ragionieri, potrei anche riprendere quest’interesse…
Ma veniamo a quel 2006… quando venni, qui al Teatro dell’Angelo, a tutta prima, con l’occhio ancora conformato alla struttura classica del Teatro delle Arti, ero scettico. Qui c’era più l’imprinting del ‘teatrino off’. Il pregiudizio nasceva dal fatto che i miei interlocutori Ragionieri, inspiegabilmente, dopo avermi portato per le lunghe, si defilarono, mentre io mi ero ormai affezionato all’idea di far rinascere quella bella struttura, così centrale. Il Teatro delle Arti ancora oggi è un nobile rudere, senza la sua naturale destinazione. Una perdita secca non solo per i Ragionieri, che, non traendone nessun reddito, forse non hanno ‘ragionato’ abbastanza, ma per tutto il mondo della cultura italiano. Ora sono contentissimo del ‘mio’ Angelo, dove alterno mie produzione ad altri ospiti di qualità”. All’Angelo, vi siete anche messi a dare ‘Lezioni di Anima’… “Abbiamo accolto la proposta di Laura de Luca e Donatella Caramia che hanno organizzato una serie d’incontri del lunedì, da ottobre alla fine di maggio, in cui si declinano le sfaccettature dell’animo umano, con l’intervento di ospiti prestigiosi e il coinvolgimento del pubblico. Finora, abbiamo accolto Enzo Garinei e i suoi amarcord; la Banda della Marina con le musiche, eseguite dal vivo, di Ennio Morricone, la voce di Marta Vulpi e le riflessioni di Arnoldo Mosca Mondadori; uno specialissimo Faust, interpretato da Mariano Rigillo, intervistato da Idalberto Fei e le provocazioni di Gabriele La Porta. Lunedì 10 novembre, è stata la volta del bel docufilm di Italo Moscati, con il poeta Ennio Cavalli a fare da contrappunto, Via Veneto Set, un ricordo di quando la famosa via della Dolce Vita era un ombelico di Roma. Il prossimo 24 novembre, sarà la volta de’ L’Anima nascosta della Poesia… molto coinvolgente. Di sotto, tremano le tavole del palcoscenico per una prova di una spettacolo destinato ai bambini. Giorgio Albertazzi, nella sua intervista di lunedì scorso, mi ha confessato che si era rivolto a Letizia Moratti, sindaco di Milano, per far introdurre nelle scuole il teatro… pure se poi, non se ne fece nulla, anche per il suo tempo risicato”.
Le giovani generazioni rappresentano il futuro del teatro o l’avrà vinta, seconde te, questa deculturalizzazione dell’Italia?
Te lo dice uno che ha insegnato ed è vissuto in una famiglia d’insegnanti. Manca il minimo background necessario ad accostarsi al teatro, quella che sentivano persino gli antichi e che ne costituiva una declinazione dello scibile. Come la matematica, il teatro è parte dell’uomo, gli serve per stare al mondo. Ma lui l’ha dimenticato. Un finale amaro, per chi fa teatro di trincea, quello che cerca di attrarre nuovi spettatori. Un contrappunto necessario alla testimonianza precedente di Giorgio Albertazzi, che naviga per le sfere empiree, in una realtà per lo meno ancora allo status quo, anche se pure lì si riflettono i crateri dell’ignoranza avanzante. A Roma, stanno chiudendo i teatri, sempre per questioni di mancanza di ossigeno finanziario e di una crisi di spettatori. L’Eliseo, ad esempio. E si tratta della capitale del Paese. La stessa crisi si registra dappertutto. I naufraghi, che credono ancora nell’arte e nella cultura, stanno abbandonandosi ai gorghi.
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